A cura di Giorgio Giunchi Joy Marino Stefano Trumpy
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Presentazione 04 Giugno 2014 Roma Camera dei Deputati

2. e-democracy

Strumenti di civile collaborazione

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Fabio Chiusi

  • L’idea di «democrazia digitale», per quanto vaga, ha generato nei decenni in cui se ne è discusso – specie gli ultimi due – una grande quantità di miti.
  • Secondo la vulgata mediatica dominante, la «rivoluzione digitale » avrebbe dovuto accompagnarsi a una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e a maggiori tassi di democratizzazione sia nelle democrazia avanzate in affanno, sia nei regimi autoritari.
  • Un processo che Lawrence K. Grossman, nel suo seminale “La repubblica elettronica” [1] definiva «inesorabile».
  • Non solo. Internet avrebbe dovuto spostare l’asse delle forme democratiche mondiali dalla rappresentanza alla democrazia diretta, o quantomeno a processi decisionali meno mediati, in cui i cittadini da soli sarebbero stati in grado di elaborare proposte di legge da sottoporre al vaglio del Parlamento, emendare norme esistenti, ma anche discutere temi di interesse collettivo ed esprimersi tramite referendum o consultazioni più o meno vincolanti.
  • E qualcosa, in effetti, si è visto.
  • Anche in Italia, come testimoniato dalla recente consultazione sulle riforme del ministro Gaetano Quagliariello, ma anche da piattaforme informatiche basate sull’idea della delega «liquida», ossia trasferibile tema per tema tra i partecipanti, adottate dagli attivisti locali del MoVimento 5 Stelle e da candidati e deputati come Umberto Ambrosoli e Laura Puppato.
  • Non è certo stata detta l’ultima parola, e qualche risultato è stato ottenuto. Tuttavia dopo tanto parlare e sperimentare a livello globale, i fatti avrebbero dovuto già indirizzare gli osservatori più analitici verso questa visione ottimistica dell’e-democracy.
  • Come scrive Matthew Hindman nel volume “The Myth of Digital Democracy” [2], insomma, «se il web sta davvero aumentando le possibilità di espressione politica del cittadino medio, dovrebbero essercene svariate prove». I dati, tuttavia, raccontano una realtà diversa.
  • A vent’anni dall’irruzione dell’Internet commerciale nelle nostre vite, e ad almeno dieci dai primi esperimenti concreti di traduzione della teoria in prassi, il bilancio dei tentativi di coinvolgimento della cittadinanza nella gestione della cosa pubblica attraverso la rete è ben più magro.
  • Prima di tutto l'e-democracy non ha giovato alla partecipazione al voto.
  • Come scrive la ricercatrice dell'Università di Oxford, Amanda Clarke, nell'analisi che ha introdotto i lavori del World Forum for Democracy 2013 [3], dal 1980 a oggi l'affluenza alle urne è in calo in media del 10% in 40 dei 49 paesi studiati.
  • Ancora, il digitale non pare avere rivitalizzato il rapporto tra eletti, istituzioni ed elettori.
  • Anzi, la fiducia nei partiti è crollata dal 49 al 27% tra il 1990 e il 2006, per toccare il minimo storico nel nostro Paese a maggio 2013, dice l'Istat, con un punteggio di 2,3 su 10.
  • Al punto che, aggiunge il rapporto Demos "Gli italiani e lo Stato" [4], il 48,5% degli interpellati ritiene che la democrazia si possa fare senza partiti - in barba a quanto dice la storia, e cioè che senza i partiti non si fanno le democrazie ma i regimi.
  • Poco male quando un italiano su tre, per la stessa ricerca, dice che tra democrazia e autoritarismo o non c'è differenza, o c'è ma in favore dell'autoritarismo.
  • O meglio: molto male.
  • Sempre negli ultimi vent'anni a livello globale, ricorda Clarke, è calato dal 62 al 51% il numero di persone che sostiene di aver preso parte a una manifestazione politica, e dal 76 al 56% quello di chi dice di aver firmato una petizione. E del resto, anche per l'efficacia di quelle online, pur molto partecipate, "dal punto di vista empirico non abbiamo visto ancora quasi nulla", scrivono i ricercatori Knud Boehle e Ulrich Riehm a luglio 2013.
  • Quello che si è visto non lascia ben sperare dato che, proseguono gli autori in un saggio pubblicato su First Monday [5], finora l'e-petitioning "non ha contribuito a superare il divario nella partecipazione politica (compreso quello digitale) basato sulle caratteristiche socio-demografiche".
  • A essere in discussione, tuttavia, è lo stesso rapporto - che i deterministi tecnologici vorrebbero necessario - tra diffusione di Internet e diffusione della democrazia.
  • Nel bilancio stilato nel 2013 dall'Economist Intelligence Unit, intitolato eloquentemente "La democrazia a un punto morto" [6], si legge che "i precedenti guadagni nella democratizzazione sono stati scalfiti negli ultimi anni", con punteggi nel "democracy index" in discesa per 10 dei 28 paesi dell'Est europeo considerati, e una "significativa erosione" nell'Europa Occidentale.
  • Il dato paradossale è che nell'ultimo decennio il tasso di partecipazione tramite il digitale è aumentato in alcuni casi più nei regimi autoritari che nelle democrazie considerate dall'indice per l'E-government dell'Onu, come scrive il ricercatore svedese Martin Karlsson [7].
  • E mentre il numero di regimi più partecipati delle democrazie è salito dal 3% del 2003 al 15% del 2012, non si è registrato un parallelo incremento dei tassi di democratizzazione in quei paesi - ipotesi per cui non restano che "poche speranze", mentre per i dittatori restano i concretissimi benefici in termini di immagine internazionale derivanti dall'adottare iniziative di e-gov ed e-participation di mera facciata.
  • Del resto, ricorda Karlsson, "pur essendo essenziale per la democrazia, la partecipazione politica non è essa stessa essenzialmente un fenomeno democratico".
  • Con questo non si vuole certo dire che Internet sia la causa di tutti questi segnali d'allarme. Il punto, semmai, è che la rete non sembra sia stata parte della soluzione. Il problema è lo stesso da qualunque prospettiva lo si guardi: si è fatta troppa speculazione e si è guardato troppo poco ai risultati concreti. Su questo la letteratura recente è unanime.
  • E così l'eccesso di proclami ha finito per confondere buone prassi, che pure non sono mancate, e iniziative propagandistiche, suscitando aspettative troppo elevate che poi non hanno retto alla prova dei fatti.
  • I media non sono innocenti al riguardo. Emblematico il caso della costituzione islandese in crowdsourcing, cioè discussa in rete tramite dinamiche cooperative dal basso, di cui molto si è letto nei termini di un successo e un esempio da imitare, e poco o nulla rispetto ai problemi - meno notiziabili perché derivanti dalla politica tradizionale, ma non per questo meno importanti - che ne hanno causato l'accantonamento e il rinvio a data da destinarsi.
  • Anche quando leggi meno ambiziose siano effettivamente composte "dal basso", poi - il modello è la Finlandia, che ha portato al voto il 3% della popolazione in un solo giorno su una norma proposta online - solo in una esigua percentuale dei casi riescono a giungere alla discussione in Aula, e in una ancora più esigua si traducono in norme vere e proprie.
  • E anche qualora ciò accada, non sono rari i casi in cui - come in Cile per la piattaforma 'Senador Virtual' - l'e-democracy è poco più di un manto con cui rivestire di legittimità scelte che sarebbero state prese comunque dal legislatore.
  • Perché se è vero da un lato che gli studi empirici sui benefici concreti arrecati dagli strumenti di democrazia digitale al policy-making sono ancora parte minoritaria del materiale accademico prodotto sull'argomento, è altrettanto vero che le valutazioni prodotte dagli studiosi che invece vi si siano cimentati sono concordi: i risultati sono modesti, e anche i casi di successo sono difficilmente generalizzabili, perché più della tecnologia conta la società su cui si innesta.
  • E le società umane sono quanto di più diverso e dipendente dal contesto si possa avere. Ancora, conta la reale volontà della classe politica di implementare e mantenere strumenti permanenti di ascolto del cittadino che non durino una campagna elettorale o non siano comunque mera propaganda.
  • Purtroppo, l'eccezione piuttosto che la regola.

Note bibliografiche

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