- Era il
15 novembre 1960 e sulla Rai, allora c’era solo il primo canale, andava
in onda la prima puntata di un programma destinato a fare la storia del
nostro paese.
- Era un
“corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta” realizzato
in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione.
- L’obiettivo
era insegnare a leggere e a scrivere ai milioni di italiani che avevano
ormai superato l’età scolare ma che erano appunto tecnicamente analfabeti.
“Non è mai troppo tardi” era il messaggio ma anche la soluzione.
- Invece
di un improbabile ritorno fra i banchi di scuola, adesso gli analfabeti
avevano la possibilità di studiare dal tinello o dalla cucina davanti
a quell’oggetto che da poco era arrivato nelle nostre case: il televisore.
- Il programma
andò in onda ogni giorno, dal lunedì al venerdì, prima
di cena, un orario scelto perché fosse compatibile con gli impegni
lavorativi di questi studenti lavoratori. In scena c’era un figura poi
giustamente diventata leggendaria: il maestro Alberto Manzi, due grandi
occhi neri, una faccia buona e una corporatura robusta che tutti ricordano
sempre avvolta da un abito classico con cravatta.
- L’uomo
giusto per entrare in casa nostra. All’inizio di questa avventura Manzi
aveva appena compiuto 36 anni: aveva imparato ad insegnare in un contesto
piuttosto difficile, il carcere minorile di San Michele in Roma.
- Quella
esperienza dovette rivelarsi utilissima: infatti il giorno del debutto,
il maestro stracciò il copione e fece tutto alla sua maniera. Dritto
al cuore.
- Funzionò
alla grande. Furono mandate in onda altre 483 puntate, l’ultima nel 1968
quando la diffusione della scuola dell’obbligo aveva reso in qualche modo
superato il format.
- Nel frattempo
si calcola che un milione e mezzo di persone si siano diplomate studiando
in tv mentre è certo il numero di paesi che hanno imitato il programma
di Manzi: 72.
- Non avevamo
soltanto fatto una scuola in tv.
- Avevamo
fatto scuola. Puntando forte sulla cultura per tutti quale leva principale
della crescita di un paese.
- Il boom
economico non fu un caso. Poggiava sulla voglia di fare ma anche su quella
di imparare. Non è mai troppo tardi, allora.
- Ma forse
questa volta, se non partiamo subito, sì.
- Il tempo
è quasi scaduto. Parliamo di Internet e del nuovo analfabetismo
digitale che sta affossando l’Italia.
- Si tratta
di un digital divide più grave e più pericoloso di quello
infrastrutturale di cui spesso si parla.
- Sì
certo, la banda larga è un problema.
- È
un problema per quel milione circa di italiani che ancora non hanno nessuna
connessione e quindi sono trattati come cittadini di serie B. Hanno meno
diritti, hanno meno opportunità.
- Ma è
un problema anche per quasi tutti gli altri perché, mentre con lentezza
imperdonabile si procedeva alla copertura del paese, quella che ancora
chiamiamo banda larga è diventata tecnicamente stretta, strettissima,
insufficiente a compiere gran parte delle operazione che oggi rendono l’esperienza
di Internet utile e conveniente (dallo scaricare un allegato al guardare
un video); e sul fronte della banda ultralarga, le reti di nuova generazione,
siamo di nuovo agli ultimi posti in Europa.
~
- In quante
cose siamo agli ultimi posti in Europa?
- Non poche
e hanno tutte a che fare con l’innovazione. Il nostro futuro, insomma.
- Il gap
tecnologico però è noto. Ignorato dalla classe politica,
nonostante le grida di allarme sempre più stanche, ma noto.
- Se in
questi anni avessimo posato un metro di fibra ottica per ogni convegno
sul tema avremmo probabilmente coperto l’Italia.
- Ma del
gap culturale invece non si parla mai. Non esiste. Non è in agenda,
neppure in quella fantomatica congerie di provvedimenti che va sotto il
nome di Agenda digitale.
- Eppure
è persino peggiore. Una palla al piede sul futuro del paese che
rischia di creare diseguaglianze e squilibri addirittura perversi.
- Si pensi
a quel che accadrà quando finalmente sarà completata la digitalizzazione
della pubblica amministrazione – succederà prima o poi? - e questa
modalità di interazione diventerà obbligatoria per tutti:
chi tutelerà un cittadino che non sa usare un computer?
- Beh, quei
cittadini non sono uno o due, ma una decina di milioni.
- È
una questione di diritti fondamentali negati, dunque; ma anche di opportunità.
- Di fornire
a tutti quegli strumenti indispensabili per esprimersi e contribuire così
alla crescita non solo economica del paese.
- Non lo
facciamo, è evidente che non lo facciamo.
- E infatti
l’Italia non cresce. C’è un grafico che fotografa il nostro (arrestabile?)
declino meglio di qualunque scandalo politico.
- È
quello che evidenzia la crescita del prodotto interno lordo negli ultimi
dieci anni in tutti i paesi del mondo.
- È
il campionato della crescita insomma e l’Italia è al penultimo posto.
Penultimo.
- Dietro
ha solo Haiti che può giustificarsi per aver avuto qualche problema
con un terremoto devastante però.
- Noi invece
che giustificazione abbiamo? Quale terremoto ci ha impedito di crescere?
- O non
è stato piuttosto l’immobilismo la cifra di questi italici anni?
- Se avessimo
il coraggio di guardare la realtà dovremmo dirci questo: siamo ignoranti,
digitalmente ignoranti, e quindi nella società della conoscenza
non possiamo crescere.
- Non cresciamo
perché non sappiamo.
- Solo che
vivere con noncuranza in un Paese di balocchi, di bellissimi balocchi va
detto, non ci porterà lontano. Anzi.
~
- Prima
di parlare dei rimedi possibili vediamo a che punto siamo.
- Intanto
va detto che nonostante gli indiscussi successi del maestro Manzi, la questione
dell’analfabetismo funzionale è tutt’altro che risolta.
- Chiamiamo
qui analfabetismo funzionale l’incapacità di leggere, scrivere o
far di calcolo in maniera efficiente (compilare una domanda di impiego,
leggere un giornale, seguire istruzioni scritte).
- Secondo
una indagine dell’Ocse, l’Italia fra il 1994 e il 2003 risultava all’ultimo
posto, fra i 34 paesi membri, con il 47 per cento di analfabeti fra 16
e 65 anni; e i dati erano pressocché identici nei cinque anni seguenti.
- Aspettiamo
quelli del periodo 2008- 2013 con trepidazione, ma onestamente non ci sono
segnali di una rimonta spettacolare.
- Con queste
premesse, non stupiscono i dati che misurano l’utilizzo della rete in Italia
nel 2012. Anzi, possiamo dire che sono la conseguenza di quanto detto finora.
- Tra le
tante fotografie possibili ne ho scelte tre.
- La prima:
il 38 per cento degli italiani dichiarava di non aver mai usato Internet.
Mai.
- Un po’
poco, un po’ troppi.
- La seconda:
nello stesso anno, il 33 per cento dei lavoratori considerava le proprie
competenze digitali (digital skills) insufficienti a trovare un lavoro.
- In questo
caso la realtà è che forse sono molti di più ma già
così è un muro da scalare.
- La terza:
sempre nel 2012, meno del 20 per cento dei cittadini usava il web per i
servizi della pubblica amministrazione (ma in questo caso va aggiunto che
quei servizi spesso sono pessimi e questo non aiuta nemmeno i più
skillati).
- Tutto
ciò è ancora nulla rispetto alla quarta fotografia, che considero
una autentica foto dell’orrore.
- Questa:
solo il 4 per cento delle imprese italiane nel 2012 ha fatto ricorso all’ecommerce.
- Il 4 per
cento. Vendendo il made in Italy!
- Se tutto
ciò accade non è perché non c’è la banda larga,
ma perché non si sa cos’è la rete, i vantaggi che può
portare alla propria azienda. Insomma,
- c’è
un digital divide culturale grande come una casa da affrontare subito.
~
- Sempre
nel 2012 la Ipsos di Renato Mannheimer, su incarico di Cisco Italia, ha
indagato meglio chi fossero gli italiani che non usano Internet e perché.
- Le risposte
furono nettissime e puntavano dritto sugli over 54: in questa classe di
età sono nove su dieci quelli che non usano la rete (e se pensate
che sia un problema da terza età tenete conto che in Italia la piramide
demografica è rovesciata per cui gli over 54 sono la maggioranza
della popolazione.
- Sono la
maggioranza degli insegnanti, dei piccoli imprenditori, dei funzionari
pubblici: vogliamo forse rottamarli anzi tempo?
- Condannarli
alla disoccupazione sicura nel caso in cui perdano l’attuale lavoro?
- E avere
un esercito di pensionati analogici e quindi ammalati di solitudine e costosissimi
per il servizio sanitario nazionale?.
- Ancora
più interessante la seconda risposta, quella relativa alle motivazioni.
- Gli italiani
che non usano Internet lo fanno non perché lo considerano inutile,
come accadeva fino a qualche anno fa quando il presidente del Consiglio
chiamava Google “gogol” e il capo della opposizione dichiarava di confinare
lo smartphone della Apple al solo weekend “per non distrarsi”.
- Gli italiani
che non usano Internet non lo usano perché ne hanno paura. Temono
di non essere all’altezza. Pensano che sia troppo difficile. Si sentono
esclusi. E così facendo si chiamano fuori dal futuro.
- Un atteggiamento
che poteva avere qualche fondamento agli albori di Internet certamente,
e forse anche nei primi anni del world wide web: ma adesso, adesso che
un qualunque anziano può aprirsi il profilo Facebook con due clic,
non ha più alcun senso.
- In vent’anni
Internet è diventato facile e non lo sanno. Questa situazione non
è solo italiana, naturalmente.
- I grafici
sulla computer literacy mostrano un gap da colmare per tutti i paesi d’Europa.
- Ma in
Italia è peggio. Lo dicono i numeri purtroppo.
- Secondo
i dati Eurostat, siamo al penultimo posto tra i 27 paesi europei, per numero
di laureati in informatica e – peggio – siamo al terzo nella classifica
dei paesi con la più alta percentuale di individui che non hanno
mai usato un computer (il 10 per cento della popolazione attiva, fra 16
e 24 anni, nell’anno 2011).
- L’analfabetismo
digitale provoca una serie di danni tutt’altro che virtuali.
- Sul fronte
caldissimo dei posti di lavoro, per esempio, nella Unione Europea è
stato calcolato che ci sono 900 mila posti di lavoro vacanti in questo
momento non perché troppo umili e quindi snobbati, ma perché
mancano le competenze digitali per svolgere le mansioni richieste.
- C’è
un digital skill mismatch che si può colmare in un solo modo: impegnandosi
da matti sulla formazione. Dicendoci chiaro e forte che dobbiamo tornare
a studiare.
- Back to
school! direi se anche gli ultimissimi dati sulla conoscenza dell’inglese
non ci vedessero al 32esimo posto nella categoria “indice molto basso”.
- Ci serve
un altro maestro Manzi, insomma: ma se la Rai di oggi è troppo impegnata
a far ascolti e soldi con i reality e i quiz per meritarsi davvero il nostro
canone, beh, non abbiamo scuse lo stesso.
- Esistono
moltissimi modi per aggiornarsi, imparare e migliorare.
- Basta
volerlo.
~
- In questi
mesi mi è tornato spesso in mente un apologo che ho scoperto sul
web.
- Sul blog
del commissario europeo dell’Agenda Digitale Neelie Kroes, una donna –
anziana! – di notevole valore, una che ricorderò per la frase: “Il
digitale ha bisogno di combattenti e non di burocrati”.
- Nell’agosto
del 2012 sul suo blog ha ospitato un post intitolato “fibra ottica e fibra
morale”.
- Narrava
la storia di quel che era accaduto nel nord del Regno Unito con Internet.
- Lì
il nord è come il nostro sud: agricolo, povero, dimenticato.
- E con
una rete fragile, spesso affidata a collegamenti via satellite, e quindi
di solito più lenti e costosi.
- Questa
era la situazione quando è arrivata l’ora della fibra ottica e si
è deciso di fare grandi investimenti sulle reti ultra veloci.
- Grandi
investimenti ovunque tranne lì, al Nord, perché quelle zone
sono considerate “a fallimento di mercato” o comunque economicamente poco
redditizie. Poteva essere la fine della storia e anche la fine di quella
zona del paese e invece qualcuno si è detto che non doveva finire
così. Qualcuno non si è arreso al declino.
- Allora
è stato chiesto agli ingegneri residenti un progetto per capire
se era possibile avere anche lì la fibra ottica e a che prezzo.
- È
arrivato un piano. Sulla base di quel piano è stato chiesto agli
imprenditori locali se erano disposti a pagare qualcosa per una rete che
li collegasse davvero al resto del mondo.
- Hanno
detto di sì. Mancava ancora un pezzetto. Un po’ di soldi.
- Ed è
stata lanciata una campagna popolare: una cosa del tipo “paga un metro
di fibra ottica e mettici il tuo nome”.
- Come in
chiesa, sugli inginocchiatoi. O sulle panchine dei parchi. E il traguardo
è stato raggiunto. Il futuro è tornato.
- Perché,
è questa la morale, prima della fibra ottica c’è bisogno
della fibra morale per volerla e prendersela se non te la danno.
- E la fibra
morale viene dalla conoscenza: so che questa cosa è importante per
il futuro mio e dei miei figli, della mia comunità, e sono pronto
a tutto per averla.
~
- In Italia
è successo. Una volta è successo. Quando alcuni pionieri
hanno realizzato – da soli – la rete del GARR.
- È
ignota al grande pubblico, ma è la rete che collega le università,
i centri di ricerca e alcune scuole.
- È
il National Research and Education Network: utilizza più di settemila
chilometri di fibra ottica spenta, connettendo oltre 60 POP (gli snodi
del traffico) per raggiungere circa 600 sedi dal laboratorio dell’Istituto
nazionale di fisica di Portopalo di Capo Passero, a Siracusa, fino a Trieste.
- Altro
che banda larga, qui si viaggia ad altissima: 10 Gigabit per secondo sia
in download che in upload.
- Quella
rete è un modello dell’innovazione possibile in Italia, fatta senza
la politica in modalità autofinanziamento, senza proclami con tanta
concretezza.
- Ma quella
rete è anche uno strumento formidabile nella sfida che abbiamo davanti:
invece di collegare solo università e centri di ricerca, potrebbe
collegare fra loro tutte le scuole d’Italia, rivoluzionare la didattica
e farne degli avamposti digitali capillarmente diffusi che il pomeriggio
e la sera potrebbero servire per formare al digitale tutti noi, analfabeti
di futuro.
- Potrebbero:
nella primavera del 2012 il fondatore di GARR Enzo Valente diede la sua
piena disponibilità al Ministero dell’Istruzione e partecipò
alla stesura di un piano operativo che se realizzato avrebbe cambiato l’Italia.
- Fu approvato
e infilato subito in un cassetto.
- Fosse
mai che qualcuno avesse voglia di trasformarlo in realtà.
|
~
- E adesso?
Colmare il digital divide culturale è un obiettivo troppo importante
per permettersi divisioni o egoismi figurarsi un atteggiamento rinunciatario.
- Per questo
nel Regno Unito nel 2012 è stato varato il progetto Go On Uk: è
una grande alleanza che punta a fare della Gran Bretagna il primo paese
del mondo per competenze digitali.
- “Noi vogliamo
assicurare a ciascun individuo e a tutte le organizzazioni – piccoli imprese,
grandi aziende e onlus – i benefici sociali, culturali ed economici di
Internet. E facendo ciò pensiamo di rafforzare la nostra economia
e contribuire al benessere, alla ricchezza e alla salute della nostra società”.
- Questo
si legge nel sito ufficiale dove si documentano le varie azioni in corso.
Così si comporta un grande paese laddove la società civile
decida di mettersi in gioco davvero senza aspettare la politica, ma provando
a guidarla dal basso.
- Perché
non farlo in Italia? Questo ci siamo detti nell’autunno del 2013.
- Lo abbiamo
fatto all’interno di una associazione di civic hackers che ho contribuito
a fondare.
- Si chiama
Wikitalia e al suo attivo ha i progetti open data a Firenze e Matera, la
trasparenza del bilancio sempre a Firenze, alcune app di partecipazione
dei cittadini, e una piattaforma che per la prima volta collega le donazioni
ricevute per il terremoto in Emilia con i progetti di ricostruzione.
- Per un
anno insomma ci siamo occupati di convincere alcuni amministratori pubblici
ad usare meglio la rete.
- Abbiamo
creato delle best practises a costo zero.
- Poi ci
siamo accorti che non era sufficiente: troppo grande era ed è il
divide culturale per limitarsi a realizzare una app che segnala le buche
stradali (sebbene fixmystreet nel Regno Unito sia stata la capofila di
un movimento di civic hacking che ha ottenuto risultati molto concreti).
- E quindi
abbiamo lanciato il cuore oltre l’ostacolo, anzi, oltre la montagna di
indifferenza che ci circonda, e abbiamo immaginato di fare Go On Italia!
~
- È
possibile nel paese dei mille campanili unirsi tutti per riprenderci il
futuro?
- Per non
rendere il progetto velleitario e quindi impossibile, abbiamo deciso di
farlo partire in una regione pilota dove le azioni fossero realistiche
e i risultati ottenuti facilmente misurabili.
- Abbiamo
scelto il Friuli Venezia Giulia che dal punto di vista dello sviluppo e
dell’utilizzo del digitale viene rappresentato come il Sud del Nord eppure
ha tanti punti di forza: le università, i parchi tecnologici, una
concentrazione di startup innovative per abitante che non ha eguali in
Italia.
- E il presidente
del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani ha accettato con entusiasmo
raro.
- È
stata lei a lanciare l’idea il 23 ottobre scorso al secondo Forum dell’Agenda
Digitale Italiana promosso da Confindustria Digitale a Roma.
- Quel giorno
sul palco c’era un grande tabellone che metteva in rilievo i tanti ritardi
italiani rispetto al resto d’Europa.
- Se si
fosse trattato di pallone o in generale di sport probabilmente qualcuno
quel giorno avrebbe chiesto le dimissioni del governo. “Non possiamo accettare
questo fallimento!” avrebbero titolato i giornali, “ne va dell’onore dell’Italia”.
- E invece
era ed è in gioco solo il futuro del paese e i media hanno ignorato
il tutto con uno sbadiglio distratto.
- Hanno
ignorato anche la call della Serracchiani che invece è stata subito
raccolta da tanti attori del ecosistema digitale.
- Nel giro
di due mesi si è così formata quella grande alleanza che
avevamo auspicato, quel “mettiamoci tutti assieme, tenendo da parte le
legittime rivalità di mercato” per un obiettivo superiore: portare
l’Italia, anzi, gli italiani nel futuro.
- Riprenderci
il futuro.
~
- Come?
- Abbiamo
individuato quattro linee di azione: la scuola, la pubblica amministrazione,
le piccole imprese e gli artigiani, e gli over 54.
- Su ciascuna
linea innesteremo progetti concreti, andremo porta a porta, classe per
classe, chiederemo ai nonni di formare i nipoti, agli studenti di aiutare
gli imprenditori, ai docenti di reinventare la didattica.
- Perché
è questo il futuro che immaginiamo, l’unico futuro possibile.
Un futuro
di tutti, un futuro per tutti.
|